Prefazione
Sessant’anni fa, un adolescente che si rendeva conto che la sua sessualità era indirizzata in maniera inusuale aveva tre opzioni. La prima, la più seguita, era nascondere alla famiglia, agli amici, alla società intera, la propria identità sessuale. Questo non era facile e significava affrontare una vita di frustrazioni, repressioni, rinunce e sotterfugi. Quella che io chiamerei “una vita non vita”. La seconda opzione era quella di imporre a tutti, coraggiosamente, le proprie scelte. Questa scelta implicava una forte dose di coraggio. Significava esporsi a umiliazioni, esclusioni, disprezzo, derisioni e violenze, magari non solo verbali. Per la terza opzione ci voleva una dose ancor più grande di coraggio. Molti dicono che decidere di togliersi la vita sia un atto di vigliaccheria. Io ho un’opinione diversa: togliersi la vita all’alba della vita, solo perché non si accetta la propria diversità, è un atto di disperazione, sì, ma anche di immenso coraggio. Ecco, io non avevo tutto quel coraggio. A 15 anni, quando per tutti i miei coetanei iniziava il periodo più bello della loro vita, con i primi amori e i programmi per il futuro, per me iniziava il periodo più nero della mia esistenza. Chiusa nel mio mutismo e nella mia camera, mi sfogavo scrivendo poesie, da cui trapelava tutta la mia angoscia, ma che dovevo tenere solo per me.
Ben presto ho capito. Ero a un bivio. Volevo vivere o morire? Volevo “essere” o “sembrare”? Volevo amare o rinunciare all’amore? Ecco, io volevo essere, volevo vivere, volevo amare. Per l’epoca e il contesto in cui vivevo, era una scelta coraggiosa, al limite della follia. Non per niente, spesso tali scelte ti facevano varcare la soglia del terrorizzante manicomio. Quando i bambini nascono, alcuni nascono con le ali bagnate e invano inseguiranno il sole per asciugarle. Quei bambini non potranno volare, o se ci riusciranno lo faranno fra mille difficoltà. Io avevo ben capito che a me non sarebbe stato consentito di volare, ma al contempo non ero disposta a strisciare per terra. Ho capito che volevo essere, vivere e amare. La mia vita era una parete da scalare? L’avrei scalata. Sotto la mia apparente timidezza covavo tutta la mia determinazione, sotto i miei silenzi si levava alto il grido della mia voglia di vivere. Mi sono spogliata dei miei principi, del senso morale e del bigottismo religioso inculcato, ho piegato il mio corpo ai voleri del mio cervello e del mio cuore e non il contrario, cercando di raggiungere i traguardi prefissati. Non pretendo certo applausi, ma non accetto nemmeno processi e condanne.
A sedici anni trovavo conforto nella lettura di Prévert, di Peyrefitte, di Lorca e di Neruda, e proprio una frase di Pablo Neruda mi si è conficcata nel cervello e ci è rimasta per sempre: “Odiatemi per come sono, basta che non mi amiate per come non sono.” Una follia, un’incosciente follia, ma ragionata. Volevo vivere, volevo amare, volevo essere riamata. La cosa più difficile era fare outing in famiglia, dare questo dolore, questo disonore, questa delusione. Ma l’ho fatto. Ho affrontato gli elettroshock che dovevano “guarirmi”, ho affrontato il viaggio a Lourdes, dove la Madonna doveva fare quello che la medicina non era stata capace di fare, ma fortunatamente la Madonna era impegnata in cose più serie.
Rossella Bianchi