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Un bambino degli anni ’40

Che ne sapete voi ragazzi, ma anche voi quarantenni, cosa significava essere bambini verso la fine degli anni ’40. E soprattutto esserlo in un paese sulle colline lucchesi, un piccolo abitato fatto di contadini a mezzadria dove la corrente elettrica ancora non c’era. A dire il vero, qualche fortunato in paese ce l’aveva, era il proprietario del bar/alimentari che probabilmente aveva un generatore.

Senza la radio, senza i giornali, non sapevamo niente di quello che accadeva nel mondo. Le notizie ci arrivavano di rimbalzo, attraverso il passa parola. I giocattoli non sapevamo cosa fossero e quindi non ne sentivamo la mancanza. Al negozio alimentari compravamo quel poco che serviva, tipo pasta, riso, baccalà essiccato e poco altro, ma mica lo pagavamo in soldi. Davamo olio, vino, farina, e poi a fine anno c’era il “conguaglio” e si doveva stare molto attenti che il conguaglio non diventasse passivo.

Il lesso, ossia il manzo bollito alla domenica, non era un’usanza, ma una religione, così come la messa e il vespro (funzione pomeridiana). Questa carne lessata non si trovava in paese; dovevi prendere la bicicletta e scendere giù in città, verso Lucca, e quello sì che dovevi pagarlo con i soldi. Ricordo un sabato in cui i miei erano avviliti perché non c’era una lira in casa e il bollito “saltava”, quindi decisero come soluzione di ripiegare sul brodo di gallina e, guarda caso, stabilirono proprio che la malasorte toccava alla mia gallina preferita: Nerina (superfluo dire che era una gallina nera).

Nerina era la mia gallina-cagnolino; la chiamavo e veniva. La prendevo sottobraccio, la portavo con me nel prato, le mettevo la testa sotto l’ala e lei docilmente sottostava, contavo lentamente fino a 50, poi la lasciavo. Lei si era addormentata e restava con me finché non la svegliavo. Avevo circa sei anni e per la prima volta in vita mia decisi di ribellarmi. Presi la mia gallina nera e fuggii nel bosco riparando in un capannone di cacciatori.  A mezzogiorno i miei mi trovarono (mi feci trovare io, impressionato dalle grida disperate di mia madre), ma con quella fuga riuscii a salvare Nerina che altrimenti sarebbe finita nel piatto domenicale.

 

Anche i dolci, la cioccolata e il torrone erano quasi sconosciuti, ma li conoscevo quel tanto che bastava per desiderarli ardentemente. Durante l’estate, attendevo con impazienza l’arrivo di una coppia di signori, marito e moglie, che giungevano da Livorno in moto. Durante la guerra erano stati sfollati e i miei genitori li avevano ospitati in casa nostra, anche se non potevo ricordarlo perché avevo solo due anni.

Perché aspettavo con tanta ansia il loro arrivo? Perché mi portavano delle caramelle che avevano un sapore delizioso: mai mangiato dei dolcetti così buoni!  

Non ho mai saputo quale fosse quel gusto, finché, mezzo secolo dopo, casualmente in Brasile, compro un dentifricio e, miracolosamente, ne riconosco subito lo stesso sapore. Ne riporto in Italia una dozzina di tubetti; non volevo rinunciare a quella sensazione che rendeva piacevolissima una cosa sgradita come lavarsi i denti.

Qualche anno dopo arrivò la televisione in paese. Che meraviglia, la televisione! Ma, oltre al fatto che non potevamo permettercela, senza corrente elettrica a che ci sarebbe servita. Invece il bottegaio ce l’aveva, era lì esposta come un oggetto misterioso, accesa e guardabile, ma c’era un problema: non era gratis, dovevi consumare, quindi servivano i soldi e quelli raramente c’erano.

Babbo Natale nemmeno sapevamo chi fosse. Al massimo c’era la Befana la notte del 6 gennaio. Era emozionante svegliarmi al mattino e trovare vicino al camino, con ancora le braci tiepide, un canestro di vimini con dentro mele, fichi secchi, noci (che poi erano la nostra frutta) e l’aggiunta di qualche mandarino e delle caramelle appese al manico in bella vista.

Provate a raccontare ai bambini di oggi com’era la vita allora, ma a cosa servirebbe? A sei anni hanno già cellulare, TV, telecomando e tutti i prodotti pubblicizzati, dai dolci ai giocattoli e all’abbigliamento. Eppure, non sono felici, anzi! Si annoiano terribilmente; non basta certo la TV, né il cellulare o i giochi elettronici. A dodici anni entrano già in discoteca, scoprono i primi spinelli, iniziano le prime prepotenze, l’approccio con l’alcol, e i genitori finiscono “sotto ricatto” senza nemmeno accorgersene.

Ma avere tutto e volere sempre di più non li rende felici, perché c’è sempre qualcosa che sembra mancare. La felicità si trova quando si riesce ad apprezzare quello che si ha, anche se è poco. Purtroppo, questa è ormai un’utopia perché il progresso ha portato con sé anche il malessere dell’esistenza”

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