Da bambino, amavo visceralmente mia madre e lei amava me. Amavo moderatamente e temevo mio padre; il ricordo delle cinghiate mi brucia, seppur metaforicamente, ancora sulle gambe.
Mia madre era una donna dolce e remissiva (nei confronti di mio padre). Aveva studiato fino alla terza elementare, sapeva scrivere (approssimativamente) e leggere. Non credo sia andata oltre la vita di Gesù e di qualche santo. Non l’ho mai considerata una donna intelligente, ma la bontà e l’amore che emanava compensavano ampiamente.
Mio padre, forse, aveva terminato la quarta elementare, poi via a lavorare nei campi; a inizio novecento funzionava così fra i contadini delle campagne toscane. Riconosco che fosse un uomo intelligente, aveva il senso dell’ironia ed era simpatico a tutti. Un motivo ci sarà stato.
Eppure, io l’ho odiato per ben tre volte. La prima volta ero bambino: avevo un cagnolino di piccola taglia che adoravo. Malauguratamente, aggredì dei pulcini del vicino, ammazzandone un paio. Ne scoppiò un gran casino, e mio padre pensò di risolvere nel peggiore dei modi: prese il fucile con cui andava a caccia e uccise il cagnolino (se l’ha fatto una volta, si ripeterà, disse). Dio, quanto l’ho odiato! E quanto ho pianto. Poi tutto passa, ma la cicatrice resta, resta per sempre.
La seconda volta avevo già 20 anni. Le mie “strane tendenze” erano già note e non certo gradite. Una specie di arresti domiciliari notturni avrebbero dovuto “raddrizzarmi”, dopo che non erano serviti né medici né preti, e nemmeno spedirmi con la zia a Lourdes, da dove tornavo più “storto” che mai.
Una sera ho proprio voluto rompere alla grande. Alle 23 (solo il sabato potevo uscire) dovevo rientrare. La chiave di casa no, perché l’orario doveva essere sotto controllo. Ma degli amici mi portarono a Livorno, a una festicciola privata. Rientrai alle 5 del mattino. Suonai alla porta, ma mio padre non aprì. Dopo quasi un’ora, mia madre, in punta di piedi, mi aprì, e andai in camera mia.
Non passò un’ora che lui irrompe in camera, lanciandomi offese, aggettivi irripetibili, e concludendo con: “Era meglio che fossi morto da piccolo, mi avresti evitato tanti dolori e tanto disonore!” Con quella frase si riferiva a un episodio del 1944: durante un incendio in cucina, mentre distillavano gli acini dell’uva per fare la grappa, io, ancora nel seggiolone, ero stato dimenticato in un angolo. Un militare americano, avvolto in una coperta bagnata, mi aveva salvato senza che riportassi la minima scottatura.
Quelle parole furono uno schiaffo che mi bruciò sulla pelle ben più delle cinghiate da piccolo. Lo odiai tanto che decisi una terribile vendetta: mi sarei tolto la vita e avrei lasciato una lettera con scritto: “Scusa se non l’ho fatto da piccolo e lo faccio adesso, con tanto ritardo. Del resto, non sei stato tu a salvarmi dalle fiamme, spero almeno che tu recuperi l’onore.”
Poi ci ho ripensato. Io mica volevo morire, però la vendetta doveva esserci. Avrei lasciato la lettera, sarei sparito per un giorno e li avrei fatti disperare; mio padre avrebbe dovuto sentirsi maledettamente in colpa.
Ho pensato, soprattutto, a mia madre: e se morisse di crepacuore, lei, che già con il cuore doveva fare spesso i conti? No, non si poteva fare. Ma ormai non potevo non odiarlo.
Quando, un anno più tardi, dissi che me ne andavo perché avevo trovato un impiego a Genova, mio padre non ci credette minimamente e, quando fui sulla porta, non mi abbracciò per augurarmi “buona fortuna”. Si congedò così:
“Non sono io che ti caccio, anche se lo meriteresti. (Eh sì, a quei tempi i figli omosessuali o si cacciavano di casa o si spedivano al manicomio per essere raddrizzati). Non tornare mai indietro per nessun motivo; anche se avessi fame, troveresti questa porta chiusa.”
E lo odiai di nuovo. Il mio odio era attenuato dal fatto che me ne andavo per sempre (così pensavo convintamente in quel momento), anche se le lacrime di mia madre erano coltellate nel mio cuore. Non passò molto tempo che, a Genova, per fatalità, per sfortuna o per inesperienza, finii nel carcere di Marassi, accusato di furto d’auto, io che prima di allora non avevo mai guidato un’automobile.
Non servirono testimoni a iosa che smentivano questa possibilità. Del resto, il giudice Sossi dichiarò: “Che contano queste testimonianze? Sono prostitute, omosessuali o pregiudicati. Poi, innocente o colpevole, visto che ‘vivacchiava’ in via del Campo a far zozzerie, merita comunque di stare in carcere.”
Quando mio padre, dopo due mesi di carcerazione senza avvocato per una curiosa evenienza (avevo un avvocato d’ufficio che l’unica cosa che seppe dirmi fu: “E dai, digli che l’auto l’hai rubata tu, sei incensurato, pochi giorni e sei fuori”), scoprì che ero detenuto, corse a Genova, prese un avvocato di peso e in poche settimane mi tirò fuori. Era un impulsivo, ma non era poi così cattivo. Passano, non anni, ma decenni. Lui ha circa 90 anni e anch’io ormai ho passato i 50.
Senza arretrare di un passo, attraverso cadute e ricadute, mi sono costruita una vita soddisfacente, sia in senso affettivo che economico. Andavo spesso, molto spesso, dai miei genitori, ma principalmente per amore di mia madre. Non ho mai chiesto niente ai miei genitori: li ho riempiti di regali, compravo loro tutte le cose buone che loro, sempre protesi a risparmiare per la vecchiaia, non si sarebbero mai comprati. Insomma, li viziavo come due bambini.
Un giorno mio padre, pochi anni prima di lasciarci, si riabilitò, in parte, con una frase: “Non ho mai visto in vita mia un figlio che fa per suo padre tutto quello che fai tu.” Mi colse di sorpresa. Era sempre molto avaro di ringraziamenti. Avrei voluto, o ero tentata di dire: “Lo faccio per mamma, lei è più felice di vedere che porto cose a te che a lei stessa.” Ma ho accennato solo un mezzo sorriso. Tutto sommato, era da tempo che non lo odiavo più.
Lui è morto la notte di Capodanno; ancora una manciata di giorni e avrebbe festeggiato i 95 anni. Mia madre, che ne aveva cinque di meno, visse ancora per più di cinque anni e morì sfiorando i 96. Caratterialmente, credo di essere una miscela dei due. Ho la disponibilità e la mitezza di mia madre, l’acutezza e l’ironia di mio padre. Peccato non aver ereditato i suoi occhi grigioverdi e grandi. Ma ho ereditato anche parte dei loro difetti. Mi piacerebbe avere anche un’altra caratteristica: la longevità che hanno avuto loro.
Per quei pochi che, con senso di sopportazione o devozione, hanno avuto la pazienza di leggere fino a qui, mi permetto un’ultima rottura di scatole, ma è importante. Avete figli, o già li avete? Attenzione, non basta educarli, insegnare etica e altro: ricordatevi che i figli devono essere come loro sentono di essere e non come voi vorreste che fossero. Consigliateli, aiutateli. È capitato ai miei e può capitare a tanti altri. Non è un disonore se un figlio si sente figlia. Non ci sono antidoti né cure; esiste solo l’accettazione, la comprensione, la collaborazione e l’amore.
Se non lo farete o non ne sarete capaci, sarete voi ad aver fallito e rischierete di trascinare anche vostro figlio nello stesso fallimento. Mi reputo un caso anomalo, ma di rischi ne ho corsi tanti e non rimprovero niente a nessuno: la cultura e i tempi erano quelli, nessun J‘accuse. Ho avuto una vita difficile, quasi incredibile, ma sono riuscito a compiere un miracolo, viste le premesse: essere qui a raccontarvelo serenamente alla soglia degli 82 anni.