Proprio oggi, 13 settembre, come tutti gli anni da secoli, a Lucca si celebra una particolare ricorrenza. Di sera, la città (almeno tutto il centro storico) è privata dell’illuminazione elettrica nelle strade, sostituita da migliaia di piccoli lumini a olio. Il tutto per ripercorrere, con la maggiore fedeltà possibile, la realtà dei tempi di molti secoli prima. Una grande processione percorre il centro per terminare nel duomo di San Martino.
I partecipanti provengono da Pisa, Amalfi, Venezia, Genova e altre città, tutti rigorosamente con i costumi dell’epoca e i vessilli delle loro antiche repubbliche. In processione viene esibito il famoso Cristo nero in ebano, una statua preziosa, antica e gigantesca di cui parlerò nel mio post, e questa è l’unica occasione nell’arco dell’anno in cui si potrà ammirarla senza doverla cercare nel duomo, dove resterà quasi nascosta per tutto il resto dell’anno.
Spesso inizio la presentazione di me stesso esordendo così: “Sono sfortunatamente nato in un piccolissimo paese sperduto nei boschi sulle colline lucchesi…”. No, da oggi non dirò più così, ma esordirò con: “Sono nato, fortunatamente, in un piccolissimo paese, ecc… ecc…”. E sapete perché? Perché se fossi nato una manciata di chilometri più in là, su un’altra collina, diciamo per esempio a Sant’Anna di Stazzema, un giorno del ’43, anziché uscire immune dall’incendio della mia cucina, salvato da un soldato americano che mi ha avvolto in una coperta bagnata e sottratto a quell’inferno di fiamme, potevo essere il bambino che a malapena sgambettava e che dei crudeli e incattiviti soldati tedeschi lanciavano in aria ridendo, per esercitarsi nel tiro al piccino.
Quando ero piccolo, scrivevo e leggevo al lume di una lampada… ma no, queste son parole di Mina in una sua nota canzone, ma era pure il leitmotiv della mia infanzia. La città non era così distante giù nella vallata, giusto una decina di chilometri appena, ma non c’erano mezzi per raggiungerla, bicicletta a parte o il carro coi buoi. E diventava così una distanza… siderale. C’era però un periodo dell’anno in cui andare giù in città diventava indispensabile: era il periodo delle sagre di settembre.
Lucca, la città dormiente, chiusa nel silenzio ovattato delle sue antiche mura, la città dove non accadeva mai niente, a settembre aveva un sussulto improvviso di vita. Luna park, bancarelle, processioni, fuochi d’artificio… insomma, una botta di vita che aspettavi con desiderio fin dall’inizio dell’estate. Le sagre si aprivano con il giorno di Santa Croce e proseguivano con San Michele e San Matteo, le due settimane successive.
La sera antecedente al giorno di Santa Croce, ossia il 13 settembre, la città subiva una suggestiva trasformazione. Via tutta l’illuminazione dal centro storico (tutto dentro le mura che la cingono è praticamente centro storico), sostituita dall’illuminazione dei lumini a olio, poi la processione in costumi dell’epoca. Venivano rappresentanti da tante parti d’Italia (Pisa, Firenze, Venezia, Bologna…), tutti con i loro costumi d’epoca, e la processione attraversava la città fino ad arrivare al duomo di San Martino.
Il “pezzo forte” di Lucca era portare finalmente, una volta all’anno, in processione la grandissima statua di ebano nera del Cristo, avvolta nei suoi preziosi mantelli d’oro e pietre. Una statua che i lucchesi chiamavano semplicemente “Il Volto Santo”. Interessante la leggenda (o forse realtà, non l’ho mai appurato) di come sia giunta a Lucca questa antica e preziosa opera d’arte. Nei secoli Tre o Quattrocento (permettetemi l’imprecisione), una nave proveniente dall’Oriente naufragò in vicinanza delle coste tirreniche.
Tutto il suo prezioso carico finì sul fondo, ma una bellissima statua di ebano galleggiò e le onde la sbatterono sulla battigia, proprio in un punto che segna il confine fra Lucca e Pisa. Ci volle poco a capire l’importanza della scultura in quello strano legno nero sconosciuto e sorse immediatamente la disputa: “Appartiene ai lucchesi o ai pisani?” All’epoca, mettere d’accordo pisani e lucchesi era come mettere d’accordo guelfi e ghibellini o Montecchi e Capuleti, tanto per rendere l’idea.
Qualcuno ebbe una soluzione salomonica (non di dividere la statua in due, per carità), ma di prendere quattro buoi con un carro e caricare la statua. Sapete come si “mettevano in moto” i buoi? Con un grido collettivo e ripetuto “Vai!” e delle violente frustate sui loro fianchi; con le briglie poi si decideva la direzione. Ecco, questa volta tutto da copione, tranne l’assenza di manovra delle briglie. I buoi sarebbero quindi diventati, a loro insaputa (involontario l’odierno riferimento alle nefandezze dei nostri politici), arbitri della situazione; e i buoi si diressero in direzione Lucca.
Ecco perché ancora oggi, il Cristo nero, ossia il Volto Santo, fa bella mostra di sé nel duomo di San Martino e costituisce, insieme a quel capolavoro di Jacopo della Quercia che è la statua d’Ilaria del Carretto, la coppia di gioielli dello splendido duomo lucchese. Io, bimbetto, non ero affatto interessato a tutto questo. Quello che mi riempiva di emozione era tuffarmi in quella marea di gente, vedere il luna park con i suoi autoscontri, montagne russe, calcinculo, tiri a segno e bancarelle di dolci; dolci bellissimi da vedere e di un profumo stupendo.
Mi aggiravo in questa città dei balocchi come Alice nel Paese delle Meraviglie, anzi no, ho sbagliato fiaba, come la piccola fiammiferaia. Desideravo disperatamente tutto, ma fra le mie mani stringevo, nella migliore delle ipotesi, giusto 10 o al massimo 20 lire, e dovevo drammaticamente decidere se potevo acquistare il bombolone, o il sigaro di menta colorata, o il croccante, o il torroncino, o una manciata di cialde al profumo intenso di anice.
Le cialde sono quelle che nel resto d’Italia si chiamano “brigidini”, ma per i lucchesi sono “le cialde”. Poiché a Lucca una “cialda” in genere significa una ciaffata, ossia uno schiaffo violento in viso a mano aperta, non ho mai capito l’attinenza, ma poco importa. Sono passati tanti anni, oltre mezzo secolo; la tradizione prosegue, c’è la processione col Volto Santo, la luminaria, i fuochi d’artificio, il luna park, le bancarelle con i dolci tipici, ma le tradizioni vanno lentamente e inesorabilmente perdendosi.
I lucchesi non vivono certo l’attesa delle sagre, viste sì con interesse, ma distaccato e forse, forse, con un pizzico di nostalgia. Ecco, la nostalgia; è questo che mi riporta a rivivere quello che era una specie di sogno esaltante. Non è mica la processione né la luminaria, non è il luna park con le montagne russe o i calcinculo; sono qui per respirare a pieni polmoni il delizioso profumo dei torroni, dei croccanti, delle cialde. A dispetto dell’età, mi sento ancora il bimbetto con le bavette alla bocca, pieno di desideri inesaudibili, che guardava con le lacrime agli occhi quel ben di Dio, stringendo nervosamente in mano le uniche 10 lire.
Adesso che posso andare lì con piglio sicuro e dire “Mi dia questo, quello e quell’altro, me ne dia tre, cinque o dieci,” tutto è diventato facile, ma quella magia è sfumata. Troppo facile, troppo scontato, troppo banale. Non c’è più la bramosia del volere senza potere. Una borsata di tutto l’assortimento non ha più il sapore della conquista dell’unico bombolone o della manciatina di cialde, che mangiavo a pezzettini piccoli, quasi bricioline, e che finivano inesorabilmente troppo presto.
Scusate se mi sono dilungata in questo prolisso “amarcord”; serviva a me, certo molto meno a voi, ma se avete avuto la pazienza di leggermi e immedesimarvi, anche solo per pochi istanti, nel bimbetto che fui, forse mi capirete.