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La città pullulava di “Mostri”

Sono stato emarginato, discriminato, escluso, deriso. Mi sono sentito un piccolo mostro indegno dell’amore dei miei genitori. Ho bagnato cuscini con le mie lacrime notturne.

A 16 anni ho capito che non ero l’unico mostro. La città pullulava di “mostri”, ma tutti pronti ad indossare la maschera del perbenismo e della cosiddetta normalità.

Ho capito che davanti a me c’era un bivio, o farla finita e uscire di scena da presunto innocente, o indossare anch’ io la maschera della normalità ed agire nell’oscurità della notte o nelle ultime fila dei cinema a buon mercato.

Io non volevo morire io volevo vivere, amare ed esser riamato. Non volevo nemmeno passare una vita a nascondere la mia sessualità. Forte di una letteratura ed autori che a scuola non erano nemmeno menzionati, una frase di Pablo Neruda si era scolpita nel mio cervello “Odiatemi pure per quello che sono basta che non mi amiate per ciò che non sono.”

Mi sentivo un salmone costretto ad andare controcorrente con i famelici nemici sulle sponde pronte a dilaniarmi. Ma io avevo deciso nella mia, per i tempi e l’ambiente, una vera follia che cosi’ sarebbe stato.

Avevo deciso di “ESSERE” e nessuno poteva costringermi a “SEMBRARE”. Sapevo che tutto questo aveva un prezzo ed ero disposto a pagarlo. Situazione difficile in famiglia. Impossibile in un piccolo centro trovare un impiego, tutte le strade sbarrate dal solito chiacchiericcio: “Sarà anche bravo, ma ha brutte frequentazioni”.

Il mio casuale arrivo a Genova, il trovarmi nel famigerato ghetto degli ebrei, la determinazione davanti alla fame, quella vera, di decidere machiavellicamente di sopravvivere mettendo da parte etica e principi religiosi.

Ma se a Lucca avevo rasentato gli elettroshock e il manicomio, a Genova ci sono altri nemici: la buoncostume. Notti in guardina, entrare ed uscire e rientrare in carcere. L’accusa, sempre la stessa, che adesso sembra fin ridicola: “Sorpreso in via del Campo in abiti muliebri in chiaro atteggiamento rivolto al meretricio.”

Erano le code nascoste del fascismo, che sembravano fin giuste alla società normale, financo a quelli che di notte gettata la maschera del perbenismo usufruivano dei nostri servizi.

Anni, decenni d’incontri, uomini che erano solo numeri, uomini di cui conoscevi il volto ma mai l’anima. Poi un giorno, negli anni 2000, un incontro con un prete, si proprio un prete, categoria che evitavo accuratamente fin da quando ero adolescente.

Ma lui era un prete diverso, diverso da tutti, si occupava di quelli che la società descrive come “gli ultimi” (tossici, clochard, prostitute, immigrati clandestini, reduci dal carcere).

Un prete che a tutti ricostruiva i sogni, riaccendeva la speranza, a tutti ridava la voglia di amare. “L’amore è amore, e di dove lo dirigi ne devi rispondere unicamente al tuo cuore”.

Un blasfemo per le alte gerarchie, un Gesù moderno per chi ha avuto modo di conoscerlo e frequentarlo e fedele al personaggio fino al punto di dire, quando veniva a trovarci: “Stasera vado dai miei apostoli”.

Lui ci ridato la voglia di vivere di sognare di sperare, di amare. E se ne è andato lasciandoci cotanto patrimonio. Ho inseguito per una vita una felicita’ impossibile e grazie a Lui, ho trovato un bene ancor più prezioso della caduca ed effimera felicita’: la serenità.

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